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Riscatto di laurea depotenziato e Tfr: ecco le pensioni del futuro

La “fuga” verso la pensione si fa più ripida per i laureati. Oltre all’allungamento delle finestre mobili per le pensioni anticipate, il maxi-emendamento alla Manovra 2026 inserisce un’altra norma che, senza generare grossi scossoni all’impianto pensionistico tout court, avrà un impatto importante sulle scelte dei lavoratori. Si tratta del depotenziamento del riscatto della laurea breve, uno strumento che consente di guadagnare anni di contributi facendo valere quelli passati sui banchi accademici, che dal 2031 inizierà a perdere efficacia ai fini dell’uscita anticipata dal lavoro.

In parallelo, cambia radicalmente la gestione del Tfr per i giovani, che vengono progressivamente spinti verso la previdenza integrativa.

Riscatto di laurea, il calendario della stretta 

Fino a oggi, riscattare gli anni di studio (secondo la legge 341/1990) significava acquistare tempo prezioso per raggiungere la fatidica soglia dei 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne), necessaria per la pensione anticipata. Dal 2031, però, questo calcolo non sarà più lineare.

Il governo ha introdotto un meccanismo di “sterilizzazione” progressiva: i periodi riscattati non verranno più conteggiati per intero ai fini del diritto alla pensione anticipata.​ In concreto, chi maturerà i requisiti dal 1° gennaio 2031 vedrà diminuire i mesi di anzianità riscattati. La sforbiciata diventerà sempre più profonda negli anni successivi:

  • 6 mesi in meno nel 2031;
  • 12 mesi in meno nel 2032;
  • 18 mesi nel 2033;
  • 24 mesi nel 2034;
  • 30 mesi (due anni e mezzo) a partire dal 2035.​

Attenzione: i contributi versati non andranno persi economicamente (conteranno comunque per l’importo dell’assegno), ma perderanno il loro potere di accelerare l’uscita. In pratica, aver pagato per riscattare tre anni di laurea breve, nel 2035, varrà solo per sei mesi effettivi di anticipo pensionistico.

Neoassunti e Tfr: scatta il silenzio-assenso

Se il primo pilastro (quello che poggia sulla previdenza pubblica) si allontana, il secondo diventa quasi obbligatorio, almeno nelle intenzioni del legislatore. La Manovra certifica una svolta che era nell’aria da tempo per i lavoratori del settore privato alla prima assunzione (esclusi i domestici): il silenzio-assenso sulla previdenza complementare.​

Dal 1° luglio 2026, chi firma il primo contratto avrà 60 giorni per decidere dove destinare il proprio Trattamento di Fine Rapporto. Se il lavoratore non esprimerà alcuna preferenza (tacendo, appunto), il Tfr non resterà più in azienda come “liquidazione”, ma confluirà automaticamente nel fondo pensione di categoria previsto dal contratto nazionale.

Questa misura mira a superare l’inerzia decisionale che spesso frena i più giovani. Secondo le stime tecniche, il meccanismo potrebbe generare circa 100mila nuove adesioni annue ai fondi pensione. Resta salva la libertà di scelta: si potrà sempre decidere esplicitamente di tenere il Tfr in azienda o dirottarlo su un fondo aperto diverso da quello negoziale, e la scelta potrà essere rivista in futuro.

Il messaggio politico però è inequivocabile: lo Stato spinge i giovani a costruirsi una rendita integrativa fin dal primo giorno di lavoro, consapevole che la pensione pubblica coprirà una fetta sempre più ridotta dell’ultimo stipendio.
Per approfondire: Perché la pensione integrativa può salvare il nostro futuro

Il nuovo patto intergenerazionale

Le due misure, lette insieme, disegnano una strategia coerente e rigida. Da un lato si frena l’uscita anticipata dei lavoratori maturi rendendo meno vantaggioso il riscatto degli studi; dall’altro si indirizzano i giovani alla pensione privata.

Il risultato è un sistema nazionale che, dovendo fare i conti con una popolazione sempre più anziana, chiede a tutti di lavorare più a lungo e di finanziare privatamente la propria vecchiaia, riducendo progressivamente il peso della spesa pubblica.

Giovani

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

© Riproduzione riservata

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