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Cibo italiano patrimonio Unesco? Coren (critico inglese) non ci sta: “riconoscimento irritante”

“Le brutte intenzioni, la maleducazione”, direbbe un italiano leggendo le parole di Giles Coren che si scaglia con veemenza contro la cucina nostrana e il riconoscimento Unesco. “Il cibo pessimo. I ristoranti cari, il personale scortese. Gli italiani odiano gli inglesi e l’unica scelta sicura è la pizza, come in America o a Wolverhampton”. Il critico gastronomico del Times non ha usato mezzi termini.

Per l’opinionista britannico il riconoscimento Unesco alla cucina italiana come patrimonio culturale immateriale dell’umanità è “Prevedibile, servile, ottuso e irritante” e la presunta supremazia del cibo italiano non è altro che “Un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia”.

L’articolo pubblicato sul Times il 13 dicembre 2025, tre giorni dopo l’iscrizione ufficiale a Nuova Delhi, è un manifesto della provocazione deliberata. Coren accusa una “certa borghesia anglosassone” di aver costruito negli anni Novanta un immaginario fittizio attorno all’Italia rurale: casolari in rovina trasformati in ristoranti “autentici”, vino della casa a fiumi, conti ridicolmente bassi. Un Paese immaginato “povero ma genuino, arretrato ma affascinante, fermo a un Medioevo conveniente per chi arriva da fuori”.

Il bersaglio dichiarato e quello reale

Secondo Coren, Jamie Oliver, Nigella Lawson, Antonio Carluccio e il River Café avrebbero “perpetuato questa favola romantica”. I supermercati britannici si sarebbero riempiti di “pomodori secchi, pesto in barattolo, gnocchi sottovuoto, salami, biscotti, panettoni”. Tutti avrebbero comprato “una macchina per la pasta, usata una volta, mai lavata e poi abbandonata nell’armadio sotto le scale, dove giace tuttora”.

Dopo aver individuato il suo bersaglio – lo sguardo coloniale della classe media inglese sul cibo italiano – Coren sceglie di criticarlo insultando direttamente l’Italia e gli italiani.

Attacca Massimo Bottura, definendo “a torto” il riconoscimento dell’Osteria Francescana come miglior ristorante al mondo, quando il locale è stato eletto due volte dalla World’s 50 Best Restaurants (2016 e 2018) ed è entrato nella Hall of Fame dal 2019. Scrive che Bottura “ha mentito” quando ha dichiarato che “la cucina italiana è unica”. Alla frase dello chef italiano – “la nostra cucina non è solo un insieme di piatti e ricette, ma un rito d’amore, un linguaggio fatto di gesti, profumi e sapori che tiene unito un intero Paese” – Coren replica: “Un Paese così unito da aver collezionato 70 governi dal Dopoguerra, perlopiù guidati da squilibrati, e da aver eletto l’unico primo ministro nazionalista di estrema destra dell’Europa occidentale? Complimenti, mangiatori di pasta”.

L’autocelebrazione grottesca della cucina britannica

Poi, Coren abbandona la polemica sull’Italia e passa all’autocelebrazione. Se c’è una cucina che merita il riconoscimento Unesco, scrive, è quella inglese. Elenca: “il toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio; le colazioni degli hotel economici, prodotte in un unico oscuro centro da troll ciechi con materiali di fortuna; gli spaghetti col ketchup; la torta di Haribo sciolta in macchina ad agosto; i noodles cinesi croccanti incollati alla tovaglia; lo snakebite and black, il Barolo britannico; le salsicce Heinz con fagioli, che contengono tutti i gruppi alimentari conosciuti; i panini al ketchup; il porridge — isolante da sottotetto ammorbidito con acqua — e, naturalmente, la Terry’s Chocolate Orange. Questa sì che è cultura. Altro che pomodori!”.

L’intento satirico è evidente, ma l’operazione rivela un paradosso: per difendere la propria cultura gastronomica, Coren la ridicolizza. La cucina inglese ha attraversato trasformazioni profonde a partire dal Cinquantadue, quando Elizabeth David introdusse la cucina mediterranea nel Regno Unito. Dagli anni Sessanta, l’Inghilterra ha accolto influenze da Europa e Asia, dando vita alla “modern British”, un’identità gastronomica eclettica. Lo “stir-fry”, piatto di origine cinese, è oggi tra i più consumati nel Regno Unito nonostante l’immagine caricaturale proposta da Coren.

Cucina italiana vs cucina britannica: una comparazione tra identità gastronomiche

Dietro la provocazione del critico britannico si nasconde un nodo irrisolto: il confronto tra due identità gastronomiche che hanno seguito traiettorie opposte.

La cucina italiana ha costruito la propria forza sull’ancoraggio territoriale, sulla trasmissione generazionale dei saperi e su un sistema di produzioni certificate che ne ha fatto il quarto esportatore agroalimentare mondiale. La cucina britannica, al contrario, ha scelto l’adattamento, l’eclettismo e l’apertura alle influenze esterne come strategia di sopravvivenza culturale.

La “modern British cuisine” è “una categoria unicamente flessibile che unisce chef che si concentrano su prodotti iperlocali, sulla cucina delle comunità della diaspora britannica o su una fusione di questi elementi”: il pollo tikka masala, piatto simbolo della cucina britannica contemporanea, nasce dall’influenza sud-asiatica; lo stir-fry cinese, come dicevamo, è tra i piatti più consumati nel Regno Unito; la chef thailandese Chariya Khattiyot ha vinto MasterChef UK 2023 con un piatto tradizionale del Nord della Thailandia.

Per dirla con le parole dell’ambasciatore britannico Paul Gooding, “la scena gastronomica britannica di oggi riflette il tessuto stesso della nostra società moderna: la diversità”.

Ma questa apertura ha un prezzo: la difficoltà a definire un’identità gastronomica riconoscibile. L’Italia esporta nel Regno Unito prodotti agroalimentari per 4,5 miliardi di euro, nove volte il valore delle importazioni britanniche in Italia. Dopo la Brexit, le esportazioni italiane verso il Regno Unito sono cresciute del 35% dal 2017 al 2023, trainando dal Grana Padano (+17%) alle conserve di pomodoro (+35%), dall’olio d’oliva (+9%) alla pasta (+9%), fino al Prosecco (+18%).

I numeri documentano una gerarchia di mercato che Coren finge di ignorare: la cucina italiana non è solo un mito costruito dalla borghesia anglosassone, ma un sistema produttivo che vale miliardi e che il Regno Unito stesso consuma con appetito crescente. La provocazione del critico del Times diventa, così, l’ennesima dimostrazione di come lo sguardo britannico sulla cucina italiana oscilli tra fascinazione e risentimento.

Riconoscimento Unesco: significato e impatto

Il 10 dicembre 2025 a Nuova Delhi, il Comitato intergovernativo Unesco ha iscritto la cucina italiana nella lista del patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Non un piatto, non una ricetta, ma l’intero sistema culturale: la convivialità, la stagionalità, la trasmissione dei saperi, il rapporto tra uomo e ambiente. È la prima volta che l’Unesco attribuisce tale titolo a un’intera cucina nazionale.

La candidatura ha presentato la cucina italiana come “sistema culturale complesso”: scelta consapevole delle materie prime, stagionalità, convivialità del pasto, trasmissione dei saperi. Un modello che supera barriere culturali e generazionali. Il riconoscimento rafforza il peso internazionale dell’identità gastronomica italiana, promuovendo attività di documentazione, programmi educativi e progetti dedicati alla sostenibilità alimentare. Con l’iscrizione, l’Italia ha raggiunto 21 elementi nella lista del patrimonio culturale immateriale Unesco.

Il paradosso della “foodification” italiana

L’attacco di Coren arriva in un momento in cui l’Italia sta affrontando un problema opposto: l’eccesso di rappresentazione stereotipata del proprio cibo.

Il New York Times ha denunciato il fenomeno della “foodification” – la trasformazione gentrificante dello spazio urbano attraverso specifiche spazialità alimentari – che sta soffocando i centri storici italiani. Città come Palermo, Bologna, Roma, Napoli e Torino si stanno trasformando in “interminabili ristoranti all’aperto” che servono “carbonara in padelle Instagrammabili” e presentano “donne che simulano la preparazione delle tagliatelle dietro le vetrine, in una sorta di rievocazione da zoo delle nonne italiane”.

Il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, ha vietato l’apertura di nuove attività di ristorazione in via Maqueda, ammettendo che “anche il sacro graal italiano del cibo ha raggiunto il suo punto di saturazione”. Firenze ha vietato l’apertura di nuovi ristoranti in oltre 50 strade. Gli esperti parlano di un processo in cui “il cibo di alta qualità viene associato a un valore culturale e di status, trasformando la città in una Capitale del gusto”, ma al prezzo dell’autenticità.

Secondo Roberto Calugi di Fipe, a volte “il Colosseo è solo una scusa per un americano tra un cacio e pepe e un’amatriciana”. Una distorsione che conferma, paradossalmente, la tesi di Coren: l’Italia rischia di trasformarsi in una caricatura di sé stessa. Ma la responsabilità non è della cucina italiana, bensì dello sguardo con cui viene consumata e mercificata.

La provocazione che non convince

Intervistato dal Corriere della Sera dopo la bufera, Coren ha dichiarato: “Il mio non era un attacco alla cucina italiana, ma una satira su certi luoghi comuni inglesi”. Ha aggiunto che “la figura retorica dell’iperbole non è più molto praticata nella scrittura italiana”, scaricando la responsabilità sul pubblico che non avrebbe compreso l’intento.

Non è la prima volta, tuttavia, che le sue parole provocano risentimento al lettori: nel 2016 Coren fece commenti pubblici dopo la morte del critico gastronomico (suo grande rivale in vita) A.A. Gill, lasciando intendere “sollievo più che cordoglio”, scatenando accuse di “mancanza di umanità”.

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content.lab@adnkronos.com (Redazione)

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