9.7 C
Livorno
giovedì 11 Dicembre 2025
Segnala a Zazoom - Blog Directory
spot_img

Lo 0,001% detiene tre volte la ricchezza della metà più povera

Lo 0,001% della popolazione mondiale controlla tre volte la ricchezza detenuta dalla metà più povera del pianeta. Un dato che taglia di netto qualsiasi interpretazione accomodante: la disuguaglianza non è più una deriva graduale, ma una struttura che condiziona governi e società. Nel World Inequality Report 2026, questa minuscola élite — meno di 60mila persone — appare in grado di influenzare capitali, asset strategici e decisioni politiche con un peso che interi blocchi demografici non riescono ad avvicinare. Accanto, miliardi di individui restano intrappolati in una quota di patrimonio che si assottiglia, mentre i redditi reali si muovono appena.

In Italia il quadro è meno estremo, ma la traiettoria non va sottovalutata. La concentrazione patrimoniale cresce, il mercato del lavoro rimane inchiodato, la partecipazione femminile non avanza e la mobilità sociale risulta sempre più debole. La distanza tra chi possiede e chi prova a costruire qualcosa si allarga lentamente, ma senza interruzioni. La distribuzione patrimoniale, più della distribuzione del reddito, indica la traiettoria che il Paese sta imboccando, mentre il mercato del lavoro continua a esprimere fragilità strutturali e una partecipazione femminile stagnante.

La nuova geografia della ricchezza globale

Il World Inequality Report 2026 evidenzia un cambiamento profondo nella struttura del potere economico mondiale. La crescita dei patrimoni più elevati procede da trent’anni a un ritmo che supera costantemente quello della ricchezza media, generando una distanza che appare destinata ad ampliarsi in assenza di interventi coordinati. Il 10% più ricco controlla il 75% degli attivi globali, mentre la metà più povera si ferma al 2%. La componente ultraricca, lo 0,001%, ha aumentato la propria quota dal 4% al 6% dal 1995 a oggi, favorita da rendimenti finanziari elevati e da una crescente integrazione dei mercati. Il rapporto mostra inoltre che la ricchezza dei multimilionari è cresciuta mediamente dell’8% annuo dagli anni ’90, quasi il doppio rispetto al ritmo del resto della popolazione.

Le disuguaglianze regionali contribuiscono a consolidare questo quadro. Nord America e Oceania mantengono livelli medi di ricchezza oltre tre volte superiori alla media globale; Europa ed Est Asia si collocano su valori più equilibrati, mentre gran parte dell’Africa subsahariana, dell’Asia meridionale e dell’America Latina continua a registrare livelli molto inferiori. Le differenze non riguardano solo gli stock patrimoniali ma anche gli investimenti nelle competenze: secondo il rapporto, in Europa e Nord America la spesa educativa per bambino supera di oltre quaranta volte quella di molti Paesi dell’Africa subsahariana. La distanza si riflette in opportunità di mobilità sociale sempre più asimmetriche, poiché la qualità dell’istruzione e l’accesso ai servizi pubblici restano determinanti nel definire i percorsi di reddito delle nuove generazioni.

A questo si aggiunge un flusso finanziario costante che penalizza le economie più fragili: circa l’1% del Pil globale si trasferisce ogni anno dai Paesi a basso reddito verso quelli ricchi sotto forma di interessi e rendite. È una cifra che supera di quasi tre volte il volume degli aiuti allo sviluppo e rappresenta un vincolo strutturale per chi tenta di colmare i divari attraverso politiche pubbliche.

Sistemi fiscali indeboliti e capacità politica compressa

Il rapporto dedica ampio spazio alle trasformazioni dei sistemi fiscali degli ultimi decenni. La progressività si è indebolita in molte economie avanzate, mentre la tassazione sui redditi da lavoro resta sostanzialmente stabile o aumenta. Il risultato è un carico più leggero per i patrimoni elevati e più pesante per salari e consumi. Gli autori osservano che, per una parte consistente delle famiglie, l’aliquota effettiva cresce all’aumentare del reddito, ma scende in modo evidente quando si entra nella fascia dei grandi patrimoni: “Le aliquote effettive dell’imposta sul reddito aumentano progressivamente per la maggior parte della popolazione, ma poi crollano bruscamente per miliardari e centimilionari”. La possibilità di distribuire gli asset tra giurisdizioni diverse, di utilizzare veicoli societari complessi e di gestire profitti e plusvalenze in modo fiscalmente ottimizzato riduce ulteriormente l’effetto redistributivo del prelievo.

La questione non riguarda solo la tecnica tributaria. La frammentazione politica e l’indebolimento dei canali tradizionali di rappresentanza rendono difficile introdurre riforme che impattino sui livelli più alti della distribuzione. Elettorati instabili, governi con cicli brevi e un peso crescente delle lobby economiche ostacolano gli interventi che mirano a correggere il divario. Nel preambolo al rapporto, Joseph Stiglitz – economista statunitense e Premio Nobel 2001 – sollecita la creazione di un organismo internazionale dedicato al monitoraggio delle disuguaglianze, paragonabile al Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, capace di fornire parametri condivisi e indicazioni basate su serie statistiche comparabili. Un’infrastruttura di questo tipo servirebbe a rafforzare la capacità delle istituzioni di affrontare un fenomeno che si sviluppa su scala sovranazionale e che non può essere gestito efficacemente attraverso politiche isolate.

Parallelamente, la riduzione degli investimenti pubblici in istruzione, ricerca e sanità limita la possibilità di compensare gli squilibri con strumenti sociali. La disuguaglianza di partenza tende così a radicarsi: chi nasce in contesti con risorse limitate fatica a costruire un percorso di reddito stabile, mentre chi parte avvantaggiato beneficia immediatamente dei rendimenti del capitale e dell’accesso facilitato agli strumenti di investimento.

Lavoro, disparità di genere e disuguaglianza climatica

La disuguaglianza globale non si esprime solo nella distribuzione dei patrimoni: agisce sulle condizioni concrete del lavoro e sulle possibilità di autonomia economica individuale. Il rapporto rileva che, considerando solo il lavoro retribuito, le donne percepiscono mediamente il 61% del reddito orario degli uomini; includendo il lavoro domestico e di cura, la quota si riduce al 32%. La penalizzazione si traduce in una minore capacità di accumulo e in una maggiore vulnerabilità nelle fasi di instabilità lavorativa. La scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro (in molte regioni del mondo sotto il 40%) amplifica ulteriormente la distanza: meno accesso a posizioni stabili significa meno possibilità di salita nella distribuzione del reddito e minore esposizione ai rendimenti del capitale.

Il rapporto introduce anche la dimensione della disuguaglianza climatica. La metà più povera della popolazione mondiale contribuisce solo per il 3% alle emissioni generate dalla proprietà del capitale, mentre il 10% più ricco raggiunge il 77%. Non si tratta solo di consumi, ma dell’impatto ambientale prodotto dagli investimenti finanziari. Chi contribuisce meno al riscaldamento globale finisce per subire gli impatti più gravi, spesso in territori privi di infrastrutture adeguate, con scarso accesso a sistemi assicurativi, servizi sanitari solidi e tecnologie per l’adattamento.

Il combinarsi di queste linee di frattura crea un circuito che tende a rafforzarsi: la precarietà lavorativa riduce il reddito disponibile; la disparità di genere riduce la capacità degli individui di costruire una rete di protezione; la vulnerabilità climatica colpisce proprio chi possiede meno risorse per fronteggiare gli shock ambientali. La traiettoria che emerge dal rapporto mostra una disuguaglianza multidimensionale che non può essere affrontata con interventi limitati a un singolo ambito.

La traiettoria italiana

Nel quadro delineato dal World Inequality Report 2026, l’Italia presenta una distribuzione del reddito relativamente più equilibrata rispetto a molte economie emergenti, ma la situazione patrimoniale mostra una polarizzazione crescente. Il 10% più ricco controlla il 56% della ricchezza nazionale; l’1% supera il 22%. La metà più povera si ferma al 2,5%, segno che la capacità di accumulare risparmio resta estremamente limitata per una parte significativa della popolazione. Sul fronte del reddito, il 10% superiore si attesta al 32% del totale, mentre la metà più povera intercetta il 21%. Nel decennio 2014-2024, la distanza tra questi due poli è aumentata da 14 a 15 punti, confermando una tendenza costante.

In Italia il 10% più ricco detiene il 60% della ricchezza, ai giovani solo il 9%

La partecipazione femminile resta ferma al 36,6%, uno dei valori più bassi nell’area Ocse. Questo dato incide direttamente sulla distribuzione del reddito familiare e riduce il potenziale produttivo del Paese. Il mercato immobiliare, inoltre, accentua la polarizzazione: chi dispone di capitali ereditati o accumulati beneficia della crescita dei prezzi, mentre chi non possiede risorse iniziali incontra ostacoli crescenti nell’accesso alla proprietà. Il reddito medio pro capite, intorno ai 32mila euro a parità di potere d’acquisto, e una ricchezza media di circa 200mila euro non descrivono la situazione reale: si tratta di valori sollevati verso l’alto dalle fasce più abbienti.

Le difficoltà dei giovani a costruire percorsi di autonomia economica riflettono un insieme di fattori: salari stagnanti, percorsi lavorativi discontinui, maggiore esposizione all’inflazione abitativa e un sistema fiscale che grava in particolare sui redditi da lavoro. La ricchezza rimane concentrata nelle coorti più anziane, mentre le nuove generazioni accumulano ritardi difficili da recuperare.

Mondo

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

© Riproduzione riservata

spot_img

Notizie correlate

Livorno
cielo sereno
9.7 ° C
13.2 °
9.4 °
100 %
1.6kmh
2 %
Gio
10 °
Ven
14 °
Sab
15 °
Dom
14 °
Lun
15 °

Ultimi articoli

SEGUICI SUI SOCIAL

VIDEO NEWS